Il Decreto Ristori bis (D-L 9 novembre 2020, n. 149) estende a nuovi soggetti il credito di imposta cedibile al proprietario per le locazioni non abitative per i mesi di ottobre novembre e dicembre. Nessuna novità è prevista per le locazioni ad uso abitativo. Nella situazione di crisi sanitaria ed economica attuale rimane comunque alta la possibilità dell’inquilino che non paga il canone e il conseguente pregiudizio del proprietario che non incassa. Cosa accade in questi casi ai fini del calcolo del reddito imponibile?
La regola generale è dettata dall’art. 26 TUIR, come riformato dal Decreto Crescita (D-L n. 34/2019 convertito) e prevede che “i redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale”. Ciò significa che il relativo canone, ancorché non percepito, va comunque dichiarato, nella misura in cui risulta dal contratto di locazione.
Per la locazione di immobili ad uso abitativo la situazione è in parte diversa. In questo caso i canoni “se non percepiti, non concorrono a formare il reddito, purché la mancata percezione sia comprovata dall’intimazione di sfratto per morosità o dall’ingiunzione di pagamento.” Ciò significa che tali canoni non percepiti non concorrono a formare il reddito se è già stata emessa l’intimazione di sfratto per morosità o l’ingiunzione di pagamento.
Da considerare che il blocco dei procedimenti di rilascio degli immobili (per ora) previsto fino al 31 dicembre 2020 imposto dal D-L n. 18/2020 come modificato dal D-L n. 34/2020, potrebbe far sorgere l’incongruenza di essere costretti a intimare uno sfratto che non potrà essere eseguito, solo per dover dimostrare la mancata percezione.
Da tenere presente però che in passato la Corte costituzionale con sentenza n. 362 del 26 luglio 2000, chiamatasi ad esprimersi sulla legittimità dell’art. 23 TUIR (ora art. 26), aveva evidenziato che i proprietari che non incassano i canoni di locazione sono sempre tutelati dagli ordinari strumenti di risoluzione contrattuale previsti dalla legge. Quindi: risoluzione a seguito di diffida ad adempiere (ex art. 1454 c.c.), risoluzione in applicazione di una Clausola risolutive espressa (ex art. 1456 cc), o ancora risoluzione consensuale.
In tutti i casi occorre che la cessazione del rapporto giuridico sia correttamente registrata. Ciò è stato anche affermato dall’AdE con la Circolare n.11/E del 21 maggio 2014, per la quale “La rilevanza del canone pattuito, anziché della rendita catastale, opera fin quando risulta in vita il contratto di locazione. Solo a seguito della cessazione della locazione, per scadenza del termine ovvero per il verificarsi di una causa di risoluzione del contratto, il reddito è determinato sulla base della rendita catastale.”
Rimane tuttavia ancora pregiudicato, il proprietario il cui contratto non è (ancora) stato risolto, e per il quale semplicemente il conduttore smette di pagare il canone. Nelle locazioni ad uso abitativo, per le imposte eventualmente versate sui canoni non percepiti fino all’accertamento della risoluzione del rapporto è per lo meno riconosciuto un credito d’ imposta commisurato alle somme, nel frattempo, non riscosse (art. 26 TUIR). Per le locazioni commerciali invece, “le imposte versate per i canoni non percepiti non sono recuperabili.” (A.d.E. Circ. n.11/E/2014).
Indispensabile, pertanto, anche a questi fini e ricorrendone i presupposti, la predisposizione di specifiche pattuizioni idonee a garantire lo scioglimento immediato del rapporto senza il ricorso dall’autorità giudiziaria.
